18 aprile 1992: Reggiana Home

61Ripartiamo da queste parole: “E’ andata male, ma vedrai che l’anno prossimo faremo un campionato di vertice come il Foggia quest’anno… arriveremo primi… intanto oggi hanno preso il nuovo mister, uno esperto che sa il fatto suo… Bruno Mazzia!”. Era il 5 luglio 1991, parcheggio del Palasport San Lazzaro in attesa di entrare al concerto dei Litfiba. Fu il momento in cui appresi la notizia che avrebbe segnato definitivamente la stagione 1991/92. Già il Padova era piuttosto indebolito dalle partenze di Albertini e Benarrivo, inoltre se ne andava proprio quell’allenatore che aveva plasmato lo squadrone del ’91. Sostituito per di più da un uomo che l’esperienza ce l’aveva tutta si, ma in fatto di esoneri. Bruno Mazzia.

Ho già parlato di quest’uomo nel post di Padova-Venezia. Per dirla proprio tutta, Mazzia era anche una bravissima persona. Ma non era un gran comunicatore, e men che meno un vincente. Anzi da come preparava le partite traspariva sempre la paura. Che non è la stessa cosa della prudenza: un prudente ti fa capire di essere sicuro dei propri mezzi ma non si espone più di tanto proprio per evitare sonore figure di merda in caso di smentita. Un pauroso invece ti fa capire chiaramente, negli atteggiamenti, nelle dichiarazioni, nel modo di mettere la squadra in campo e di impostare la partita, che punta a prenderne il meno possibile e non ha nessuna intenzione di osare nulla. Ecco, Mazzia era così. Le dichiarazioni che fece dopo la partita di Lucca, pareggiata in undici contro nove ai primi di ottobre ( “Allora mister, alla luce di come si erano messe le cose: un punto perso o un punto guadagnato oggi per il Padova?”“Scherza!?! I punti sono sempre tutti guadagnati!”) erano il suo miglior biglietto da visita. Per il resto nulla da dire su di lui: mai un atteggiamento sopra le righe, anzi sempre molto signore nel comportamento. Ma non adatto ad allenare una squadra che puntava in alto.

Nel girone d’andata il Padova, che proprio scarso non era, si era tenuto a galla, vincendo parecchie partite anche bene (vittorie immediatamente seguite dal rovescio alla trasferta successiva, ma almeno in casa non si perdeva). I problemi iniziarono nel girone di ritorno, dalla trasferta di Ancona in poi: fino a marzo non vincemmo più una partita, pareggio in casa e sconfitta in trasferta. Non saremmo potuti andare lontano, ed il pubblico cominciò a prendersela sempre più col povero mister. Il coro “Oh Mazzia salta la panchina!” divenne un must quell’anno, ma non era la sola Curva Nord a contestarlo, dal momento che anche da altri settori dello stadio si alzavano spesso e volentieri fischi ed insulti al suo operato. Ed il sospetto, anzi la certezza, è che pure la squadra gli avesse voltato ormai le spalle e gli giocasse contro… Col Bologna fece scaldare per tutto il secondo tempo Putelli, per metterlo dentro a cinque minuti dalla fine al posto di Montrone che era uno dei pochi che creava problemi seri in avanti, e l’Appiani venne veramente giù a suon di fischi. Al termine di Padova-Venezia, squadra e mister furono pesantemente contestati e volò pure qualche schiaffo (clicca qui). Quando ci ripenso, vorrei tanto prendermi gentaglia montata come Legati (tanto per dirne uno) e riportarlo a giocare a Padova in quel periodo: capirebbe che cosa significa “pressione ambientale”! 

Dopo il derby andavamo a Cosenza, contro una squadra lanciatissima verso la serie A. Perdemmo uno a zero, ma più che la sconfitta in se, a preoccupare era la totale mancanza di reazione della squadra. Il giorno dopo, prima di andare a scuola,  mi fermai al bar di fianco e buttai un occhio al Mattino. Mazzia, intervistato dal solito Ciccio Edel, era ormai in completa balia degli eventi: “Qui bisogna pensare a salvarsi e guardarsi seriamente le spalle – disse l’allenatore – Altro che voli pindarici. La classifica parla chiaro!”. Ormai bisognava farlo fuori, era chiaro che non aveva più la situazione sotto controllo: a parole la dirigenza lo stimava molto, ma bisognava far i conti con i risultati che non arrivavano e con la piazza sempre più delusa da quella che doveva essere la stagione in cui si “spaccava il mondo” e che rischiava di concludersi molto ma molto male… Nel frattempo si avvicinava la Pasqua, con i biancoscudati che ospitavano all’Appiani la Reggiana, anche questa in piena corsa per la serie A.

Il Giovedì Santo era l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze pasquali, e la sera ci ritrovammo in compagnia, al campetto di basket che fungeva da punto di riferimento. Solite chiacchiere del più e del meno iniziali, poi si formano i vari gruppetti e si entra in argomenti più specifici. Più di qualche mio amico era venuto allo stadio contro il Venezia, e qualcuno si era anche divertito al punto di voler ritornare. Inoltre, proprio in vista della partita con la Reggiana (considerata importantissima ai fini della classifica) la società aveva cercato di attirare la gente allo stadio, portando da 10.000 a 7.000 lire il costo dei biglietti ridotti, ed invitando gratis tutte le donne. Operazione-simpatia, che garantì una buona cornice di pubblico (All’Appiani non si scendeva quasi mai comunque sotto i 7.000 spettatori) ma che non mitigò assolutamente la rabbia del popolo biancoscudato. Ad ogni modo ci accordammo per ritrovarci il sabato alle 13 alla fermata dell’autobus n.16. Dovevamo essere in sei.

La sera successiva tuttavia, il Venerdì Santo, le cose cambiarono. Uno di quelli che ambiva ad essere il leader della nostra compagnia, se ne uscì con una proposta che sapeva tanto di ordine, perentorio ed inequivocabile: “Tosi, sabo pomeriggio ‘ndemo tutti su a Villa Draghi!”. Villa Draghi è una villa situata ai piedi dei Colli Euganei, ai confini fra Montegrotto e Torreglia, con un grande parco che fra l’altro per un periodo è stato anche punto di incontro di frequentatori di messe nere, ma che da sempre è meta di giovani fumatori in erba (o meglio, di erba). “Cossa disito? Forse ze mejo dea partia del Padova… a Villa Draghi ze anca pien de figa!”, mi disse uno di quelli che avrebbe dovuto venire allo stadio con me… “Scusa ma… non si va a Pasquetta a Villa Draghi?”, fu la mia replica. “No, a Pasquetta ‘ndemo sul Monte dea Madonna!” (altro luogo dei Colli Euganei, meta di turismo locale), mi rispose colui che aveva formulato la proposta; e poi rivolgendosi alla compagnia ancora col tono perentorio: “Siamo tutti d’accordo? Domani Villa Draghi, domenica Open, lunedì Monte della Madonna!”. Aveva già deciso tutto lui. Declinai pubblicamente l’invito, primo perché non mi è mai piaciuto chi vorrebbe darmi ordini, e secondo perché immaginavo già quale sarebbe stato il tema dominante della giornata a Villa Draghi e potevo anche immaginare che le passere pur presenti sarebbero state solo ammirate in silenzio, a causa dello stordimento generale che ci sarebbe stato dopo poche ore. E poi non ci pensavo minimamente a tradire il Padova. Il “Caro Leader” che aveva fatto la proposta non disse nulla, ma mi guardò molto male… Poco più tardi venne da me a dirmi che “dovevamo parlare”, perché qualche tempo prima infatti avevo confidato ad un ragazzo che girava nella nostra compagnia che non mi piacevano i suoi atteggiamenti “dittatoriali”, e non gli era piaciuta la cosa. Quando si dice “Bada a chi lo dici, non sono tutti tuoi amici!”… La cosa finì poi a schiaffi, al che mandai a cagare la compagnia sia per il sabato che per la domenica (Inizialmente il mio embargo doveva durare anche il lunedì di Pasquetta, ma la domenica sera ci fu un ulteriore chiarimento che mi convinse a rientrare nei ranghi) e decisi (ma non avevo mai avuto il dubbio) di andarmene alla partita assieme all’unico socio che non mi aveva voltato le spalle.

Sabato pomeriggio, alle 13, eravamo entrambi alla fermata del bus n.16. Parlavamo di quanto accaduto la sera precedente e di quanto fossero stronzi certi “amici”, quando mi sentii chiamare alle spalle: era un ragazzo che fino all’anno prima giocava a calcio con me, e che frequentava lo stadio abbastanza assiduamente da prima ancora di me. O meglio, l’aveva frequentato fino al termine del campionato 1990/91: il giorno della prima di campionato (Padova-Ancona) l’avevo ritrovato in mattinata, gli avevo chiesto se sarebbe venuto allo stadio quel pomeriggio, e mi ero sentito rispondere “No!” in maniera abbastanza secca. Quel “No!” che vuol dire “non rompermi i coglioni con le tue cazzate” che a me personalmente urta i nervi. Poi ne capii il motivo: aveva da poco cambiato squadra ed ambiente, inoltre aveva trovato la ragazza. O meglio, una di quelle “morosette” adolescenziali che ti fanno perdere la testa per poi farti rimanere molto male quando si stancano di te. Lo capii tornando dalla partita contro il Messina, ad ottobre: io ero vestito da stadio, con tanto di sciarpetta al collo; lui era nello stesso autobus insieme con questa moretta con i capelli a caschetto che faceva cicicocò. Mi salutò, a denti stretti, come si saluta uno che non avresti voluto vedere. La sua ragazza mi guardò, notai che aveva lo sguardo da furbetta, probabilmente lo era più di lui. Ad ogni modo non l’avevo più visto allo stadio, almeno fino a quel 18 aprile. Fu proprio lui a chiedermi: “Vai allo stadio oggi?”. Avevo il giubbotto di Jeans, una sciarpa in raso “Hell’s Angels” (presa in un negozio di coppe che all’epoca si trovava a Brusegana… probabilmente l’avevano prodotta loro!) ed il baschetto in raso a spicchi biancorossi che andava molto fra i ragazzi di stadio in quel periodo. Dove cazzo sarei potuto andare conciato così, a ballare? “Oggi vengo anch’io!”, mi rispose, come se fosse un grande evento. Notai che non aveva nulla di biancorosso addosso: occhiali scuri e giubbotto in pelle nero, nonostante il caldo. Tutto vestito in nero come il socio che l’accompagnava (che conoscevo e che sapevo essere un grandissimo sbruffone). Non mi pareva molto in forma, almeno moralmente: “Come va con la tua ragazza?”. Risposta secca: “Ci siamo mollati. Ieri”. Ora capivo tutto. “Ma non hai la sciarpa?”, domanda ingenua. Il suo socio mi guardò come si guarda un bambino che dice una cazzata, lui seccato mi rispose: “No me ne ciava un casso dea sciarpa! Mi un cò vojo fare casin e basta!”. Ai tempi non esisteva lo “stile casual” nelle curve italiane. Tuttalpiù esistevano situazioni di gruppi che, onde evitare controlli, in trasferte particolarmente calde o dove volevano evitare la scorta non si mettevano addosso i colori, anche se la tendenza dei più (soprattutto in trasferta) era quella di “ostentare” la fede calcistica, anche per provocazione… Il suo discorso aveva perfettamente senso, ma in quel preciso momento quel senso mi sfuggiva!

Più tardi, mentre eravamo in autobus, mi chiese se volessimo unirci a loro per una spedizione sotto la curva ospiti. Intuii cosa aveva in mente, in quattro mi sembrava un bel suicidio, ma non volevo sembrare un codardo che si tira indietro: “Va bene, ci sto!”. Più o meno le stesse cose deve aver pensato l’altro mio socio, dal momento che non oppose. Il suo socio invece, quello sbruffone, obiettò sostenendo che non avevo propriamente un abbigliamento da scontri. Mi sarebbe venuto da chiedergli cosa stracazzo gliene fregasse a lui dal momento che non lo conoscevo e non mi era neppure troppo simpatico, ma mi limitai a rispondere: “Non ti preoccupare: passiamo di fianco ai reggiani, gli mostro la sciarpa così vengono avanti, poi al primo che arriva molliamo due bombe in faccia ed iniziamo a correre verso la Curva Nord a chiamare i nostri, così viene fuori un bel disastro!”. Il tipo mi guardò come se fossi pazzo, ma agli altri tre l’idea piacque. A 16 anni eravamo parecchio fulminati e deficienti, nel senso proprio di incoscienti, ma ci è sempre andata bene… Il mio ex compagno di squadra suonò la chiamata del bus in via Facciolati, subito dopo l’allora CTO (Oggi Ospedale S.Antonio) e scendemmo attraversando a piedi i giardini di Santa Rita, passando davanti il complesso dell’Istituto Marconi per poi svoltare a destra all’incrocio, ripercorrendo in pratica la strada che facevano i cortei dei tifosi ospiti al contrario, per sbucare quindi davanti la Caserma Salomone.

Chi ricorda i tempi dell’Appiani, ricorderà che quella stradina davanti la caserma in cui aveva sede il Distretto Militare di Padova conduceva dritti dritti alla Curva Sud, quella degli ospiti. A quel punto per i tifosi padovani che venivano da Santa Rita o dal Cus era obbligatorio svoltare a destra in via 58° Fanteria, per andare verso i Distinti o la Curva Nord. Quando i tifosi ospiti erano molto numerosi, gli veniva assegnato anche un pezzo di gradinata, ed il passaggio veniva chiuso ai tifosi padovani che venivano obbligati a fare il giro contrario. E noi infatti dopo un centinaio di metri trovammo la strada transennata, ma con nonchalance aggirammo le transenne senza dire una parola. Un vigile li in zona tentò di richiamarci, fingemmo di non sentirlo, ma questo allarmò un gruppo di carabinieri, che ci sbarrò la strada e ci fermò proprio davanti lo spicchio di gradinata riservato agli ospiti: “Siete di Padova?”. E di dove saremmo potuti essere? “Che cazzo ci fate qua?”. “Abitiamo di fronte al Cus – gli risposi – è la strada più breve…”. Nel frattempo l’atmosfera di stava scaldando, perché i reggiani si erano accorti di noi e pian piano ci stavano circondando. Uno mi si affiancò, faccia scavata, sembrava un tossico: “Dammi la sciarpetta!”, e fece per afferrarmi la sciarpa in raso. Per fortuna avevo avuto l’accortezza di chiudermi il giubbotto, così non riuscì a sfilarmela, ed io lo spinsi via riuscendo a sgattaiolare oltre. Altri reggiani tentarono di farsi sotto per prendermi la sciarpetta, mi girai e mi accorsi che eravamo rimasti solo in due, io ed il mio socio. Gli altri due fenomeni erano belli che corsi via, alla faccia dei piani di guerra. Ne uscimmo senza danni, ci andò di lusso, anche se per conto mio i reggiani avevano capito di aver davanti due ragazzini scemi e non avevano neppure troppa convinzione o voglia di perderci del tempo.

Da quel momento iniziò una furiosa discussione fra me ed il mio ex-compagno di squadra, le cui intenzioni iniziali non corrispondevano minimamente ai fatti: lui mi accusava di aver voluto fare di testa mia, io gli replicavo di avergli dimostrato di avere le palle, a differenza sua che si vestiva di nero e teneva un atteggiamento da “duro di plastica” che non corrispondeva minimamente ai fatti. Il suo socio intervenne nella discussione, con l’aria di chi la sa più lunga degli altri: “In quattro si poteva fare benissimo di più, perché non conta il numero quando fai a botte, ma la cattiveria e la convinzione! Solo che quando hai visto il tipo che ti ha detto ‘Dammi la sciarpetta’ dovevi mollargli una bomba in faccia, non una spintarella. Allora aveva senso poi correre verso la Nord, loro erano spiazzati e non reagivano subito e noi andavamo a chiamare gli altri. Hai fatto saltare tutto, scusa se te lo dico ma sei un coglione…”. In quel preciso istante mi partì l’embolo: lo presi per il collo, lui mi tirò uno schiaffo, poi gli altri due ci divisero. La verità è che avevamo fatto una stronzata, dentro di noi ce ne rendevamo conto, ma non avevamo il coraggio di ammetterlo e, in maniera molto padovana, scaricavamo la colpa l’uno sull’altro! Nel frattempo, a furia di litigare eravamo arrivati ben oltre la Curva Nord, verso il Chiosco di fronte alla Basilica di Santa Giustina, che ai tempi dell’Appiani era il punto di riferimento e di ritrovo degli HAG nei giorni delle partite. Avevamo fra l’altro attirato l’attenzione di più di qualcuno, che era venuto a vedere che cazzo avessimo da urlare, e non era bella gente. Ma mentre eravamo in quella situazione ancora imbarazzante, arrivò un urlo: “Eccoli! Andiamo!”. Praticamente una ventina di reggiani stavano arrivando con fare spavaldo dal Prato della Valle proprio sotto il nostro chiosco, e già non era una bella situazione. Il loro problema è che erano anche amici dei vicentini (lo sono tutt’ora), e più di qualcuno si mise ad urlare “I vicentini! Andiamo!”. Sicuramente per il fatto di essere degli ospiti non graditi, cambiava poco la loro provenienza, ma questo piccolo “qui pro quo” fece si che almeno un centinaio di persone partissero alla caccia fra le bancarelle del mercatino dell’antiquariato in Prato. Io ed il mio socio storico, nervosi come eravamo, ci accodammo: i malcapitati presero diversi pugni e calci, prima che il suono delle sirene facesse si che i nostri si dileguassero! Ricordo bene uno di loro che accennò una reazione, come a voler combattere uno scontro impari: venne semplicemente travolto da un’onda di “paralyzer” (un gas urticante, che qualcuno in quel periodo aveva procurato durante una gita in Francia, dove era legale, e distribuito a piene mani alla gentaglia di casa nostra…) dopodiché venne utilizzato come allenamento per rigoristi. Non lo invidiavo per niente… Anni dopo conobbi un ragazzo di Reggio Emilia, che mi raccontò di essere stato presente in quel momento, mi spiegò che quei 20 erano tutti reggiani e non vicentini, e che avevano clamorosamente sottovalutato la situazione prima di rendersi conto che eravamo numericamente almeno quattro volte loro. Mi ha anche chiesto del gestore di un bar sotto i portici dove si era rifugiato, che gli aveva letteralmente salvato la vita, e mi aveva chiesto di salutarlo e ringraziarlo: lo farei volentieri se quel bar non fosse diventato un kebab!

Con l’arrivo della celere i nostri si dileguarono, lasciando i reggiani un tantino ammaccati. Qualcuno finse abbastanza pateticamente di osservare gli oggetti in mostra al mercatino dell’usato. Io ed il mio socio tornammo indietro, dove incrociammo i nostri due occasionali “compagni di ventura” che stranamente erano rimasti indietro. “Varda che i casini ze sta par de là!”, dissi al tizio con cui avevo appena litigato, che non rispose. A questo punto non c’era più nulla da dire ed entrammo allo stadio…

La nostra curva era ancora semivuota, mancava parecchio all’inizio della partita. In compenso faceva capolino qualche bella figa, vista la promozione per le donne, e non era una cosa abituale. Il grosso dei reggiani erano già dentro, quelli giunti in treno, altri arrivavano alla spicciolata, e più di qualcuno (dalle notizie che sentii) ci aveva rimesso la carrozzeria dell’auto: quel giorno eravamo semplicemente intrattabili! Il primo coro ce lo fecero loro: “Chi non salta è un padovano!”. Un classico dell’epoca. La nostra risposta fu un applauso di scherno. Ci riprovarono: “Sant’Antonio, vaffanculo!”. E qui oltre all’applauso di scherno si presero anche le risatine di qualcuno, e commenti come quello mio: “Sapessero quanto cazzo ce ne frega a noi…”. In tutto saranno stati attorno al migliaio di unità, e quel giorno effettuarono anche una coreografia con i palloncini azzurri, di cui non ho mai capito il senso… A dirla proprio tutta non erano male come gruppo. Non lo erano allora, e non lo sono oggi. Ma quel giorno, era la giornata sbagliata… Noi avevamo anche riempito la Curva Nord, ma invece del consueto “Hell’s Angels Ghetto”, in balconata era esposto uno striscione che diceva testualmente: “Padova da metà classifica, tifo per metà partita”. Abbastanza eloquente su ciò che erano le nostre intenzioni. E le parole di uno dei capi degli HAG di allora, tolsero ogni minimo dubbio: “Oggi nel primo tempo non si canta, nel secondo dobbiamo cantare anche per il primo! Perciò state pure seduti ed i reggiani non cagateli nemmeno!”. Chiaro, limpido. Poi aggiunse anche: “Se segnano non esultate!”. Strappò qualche sorriso, ma l’entusiasmo non era dei migliori.

Poco prima della partita spuntarono fuori anche gli altri due capi degli HAG, che si presentarono in completo, camicia e cravatta. Non ho mai capito il motivo di tale scelta, se fosse una forma di goliardia (effettivamente uno di loro era particolarmente eccentrico e goliardico, me lo sarei aspettato…) o se avevano avuto qualche incontro “importante” nel prepartita, in cui era richiesto un certo abbigliamento. Non ho nemmeno mai avuto la curiosità di chiederlo… Qualcun altro (una decina) si lasciò andare a cori contro Puggina (“Puggina, Puggina, lo ga trovà in cusina; Puggina, Puggina, smissiava ea farina”) ma niente di particolarmente rilevante. I reggiani ci offendevano tantissimo, ma la consegna del silenzio venne rispettata. Ad un certo punto su calcio d’angolo “Penna Bianca” Ravanelli (che poi avrebbe fatto la sua fortuna alla Juve ed in Nazionale) raccolse un rinvio corto della difesa e calciò al volo sotto l’incrocio dei pali. Granata in vantaggio. Gioia estrema dei mille reggiani e tappo che per poco non saltò in quanto mezza curva balzò in piedi a gridare “Mazzia, Mazzia, vaffanculo!”. I capi faticarono non poco a calmare gli animi. Nuovi cori e provocazioni dei reggiani (“Meritate la C!”) fecero si che arrivammo al secondo tempo belli carichi…

Anche noi organizzammo il nostro momento di folclore, e nell’intervallo vennero distribuiti centinaia di rullini di carta bianchi, di quelli che venivano utilizzati per gli scontrini. Al ritorno delle squadre in campo una miriade di rotolini di carta bianca venne lanciata a formare un’autentica cascata: era la prima volta che partecipavo a quella che viene definita in gergo una “cartata” e l’effetto fu anche migliore di ciò che si vede nella foto sopra. Tanto che l’arbitro Pairetto (quello che qualche anno fa era designatore e che finì in mezzo alla bufera di calciopoli insieme a Moggi, De Sanctis e compagnia telefonante…) fu costretto a ritardare di cinque minuti buoni la ripresa delle ostilità. E come da copione ricominciammo a cantare, con un paio di pensierini per i reggiani ed i gemellati (“Vicenza, Reggiana, figli di puttana!”), e poi tanti cori per il Padova. Nella ripresa facemmo un gran tifo, nonostante la squadra fosse inguardabile. Un atto d’amore, che non trovò tuttavia riscontro sul campo, tanto che la Reggiana rischiò di dilagare.

Mano a mano che passavano i minuti, l’incazzatura generale aumentò esponenzialmente: ci fu un’altra interruzione perché qualcuno aveva appiccato il fuoco alla carta accumulata a bordo campo. Poi un fitto lancio di oggetti in campo: si cominciò con le mazze del tamburo (una sfiorò Pairetto che non fece una piega, oggi in quelle condizioni una partita verrebbe sospesa…), poi vennero anche divelte un paio di tavole di legno che componevano la Curva Nord. Un ragazzo con problemi di droga (“Problemi” significa che per lui la roba che girava in Prato era troppo poca…) tentò anche l’invasione solitaria, arrampicandosi su per la rete altissima. Fatto che allarmò i celerini presenti a bordo campo che si schierarono sotto la Nord, diventando a quel punto un bersaglio. Ricordo un celerino giovane, che ci guardava e rideva come a prenderci per il culo: dopo pochi minuti venne centrato da una monetina sul labbro e smise di ridere! Nel frattempo il “tentato invasore” era bloccato in alto sulla rete: un agente della Digos gli intimò di scendere, e questo gli faceva segno come a dire “Stai calmo, che sto cercando di venirne fuori…”. Troppo fatto sia per salire che per scendere. Un altro dei vecchi, con i suoi stessi vizi, gli gridò: “S. vegno mi a tirarte zo!”. “A posto semo….”, commentò uno di fianco a me. E così dopo pochi minuti di tifosi appesi alla rete ce n’erano due: uno in alto che non sapeva se salire o se scendere ed uno a metà con gli stessi identici problemi. E la rete che oscillava paurosamente. Col senno di poi sarebbe stata una scena da ridere, ma non rideva nessuno, anzi eravamo tutti incazzati come iene e finimmo col prendercela con gli sbirri.

Al triplice fischio le squadre entrarono negli spogliatoi fra i fischi e gli insulti del pubblico, e gli oggetti dalla Curva Nord. Non le mandavamo a dire a quei tempi. La tensione era altissima, qualcuno tentò di entrare in campo, e qui entrarono in gioco gli eroi della domenica, ovvero un manipolo di finanzieri che pensò bene di entrare in Curva Nord per sgomberare il parterre: riuscirono ad inglobare e bastonare un paio di persone (fra cui il mio ex compagno di squadra) prima di essere spediti fuori a calci nel culo. Ma il vero show lo mise in atto uno dei tre capi degli HAG, che fuggì per l’intero stadio trascinandosi un manipolo di celerini prima di essere arrestato. A questo punto uscimmo in parecchi, e la battaglia si trasferì all’esterno. Feci giusto in tempo ad incrociare il mio ex-compagno di squadra che correva via zoppicando (“Porco D. che bomba!”) prima di ritrovarmi fra i due schieramenti: da una parte i celerini che facevano da cuscinetto, dall’altra un folto gruppo dei nostri ultras che iniziarono a tirar sassi verso di loro. Ci fu una prima carica, arretrammo di un centinaio di metri. Poi ricominciò il tiro a bersaglio. In questo frangente vidi un tizio che conoscevo di vista in quanto frequentava la mia stessa scuola, biondino con i capelli ricciolini, che partì con un sasso ed al momento del lancio urtò un personaggio molto noto (ai tempi ancora giovincello, ma già noto): ne uscì un tiro sbilenco che finì oltre il muro di cinta della Caserma Salomone, mentre colui che era stato urtato reagì a pugni. Non ho più visto quel ragazzo allo stadio…

Ad ogni modo i casini proseguirono fino ad oltre le sette di sera: ad un certo punto Prato della Valle era presidiato in forze da Polizia e Carabinieri. Almeno un altro paio di persone vennero fermate. Io grazie al cielo ritrovai il mio socio e ci incamminammo verso l’Istituto Marconi per tornare a prendere l’autobus a Santa Rita. Lungo la strada, proprio poco prima dell’incrocio che va verso il Marconi, incrociammo un reggiano a cui era appena stato distrutto il lunotto della macchina. Il tizio era di mezza età, ed oggi mi avrebbe anche fatto pena, perché aveva una vecchia Fiat 128. Anche se non era stato molto prudente, va detto, perché aveva una sciarpa “Forza Regia” in bella vista dietro, e un gagliardetto della Reggiana appeso sotto lo specchietto retrovisore. “Guardate qua, padovani di merda! Mi avete distrutto il vetro! Come ci torno io a casa adesso?”. Io ed il mio socio non dicemmo nulla, ci guardammo, e caricammo due bei calcioni sulla portiera. SBAM! SBAM! Giusto perché il signore non si facesse mancare nulla. “E se te parli, tee ciapi par de sora!” gli urlò il mio socio. Il signore reggiano non disse assolutamente nulla, ci guardò a bocca aperta. Tornando a casa un po’ mi pentii del mio gesto, quel signore poteva essere tranquillamente mio padre. Ma ormai era stato fatto…

Al TGR delle 19.45 arrivò la notizia tanto attesa: “Il Calcio Padova, dopo la sconfitta interna con la Reggiana ha sollevato dall’incarico l’allenatore Bruno Mazzia. Il suo posto viene momentaneamente preso da Mauro Sandreani, allenatore in seconda”. Giordani dichiarò anche: “Siamo assolutamente dispiaciuti, nutriamo immensa stima per Bruno Mazzia, come allenatore e come persona. Purtroppo però non possiamo più fare altrimenti…”. Mia mamma sentì la notizia con me, e ricordo che mi disse: “Povero omo! Pensa che brutta Pasqua chel ze drio farse, sensa lavoro e magari anca co na fameja e dei fioi…”. Non era ironica, mia mamma è molto buona di carattere e su queste cose è un po’ ingenua. Io ripensai al signore con la 128 di Reggio Emilia, e ribattei: “C’è chi farà una Pasqua anche peggiore della sua, se è per questo…”. Ma non aggiunsi altro, avevo già parlato troppo. La trasmissione “Fuorigioco” poi dedicò un servizio agli incidenti, che vado a pubblicare qui sotto. Niente di che rispetto alle tragedie ed ai titoloni che avrebbero tirato su oggi…

Per la cronaca, Sandreani sarebbe dovuto rimanere fino al termine della stagione, condurre il Padova alla salvezza e cedere poi il posto ad Eugenio Fascetti. Ma quest’ultimo non era per niente amato dalla tifoseria (tanto che nei mesi successivi ci facemmo anche sentire più di una volta con il coro: “Fascetti non ti vogliamo!”), e dal momento che il buon Mauro era invece amato dalla tifoseria, dallo spogliatoio e dall’ambiente, venne confermato anche per gli anni a venire. Fu l’inizio del ciclo che ci portò poi alla serie A. Ma questa è un’altra storia…

6 pensieri su “18 aprile 1992: Reggiana Home

  1. enrico

    No parlavo di mazzia,ho sentito dire che una volta si presentò in spogliatoio e minacciò i giocatori con la pistola perchè giocassero bene,e i giocatori quella partita corsero come fulmini

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